La sindrome di Barney Stinson su Clash of Clans

La sindrome di Barney Stinson su Clash of Clans

La sindrome di Barney Stinson su Clash of Clans

Essere players è un’arte.
Lo scrivo quasi fosse un assioma e di certo non ha bisogno di dimostrazione. Ma proverò a spiegarlo lo stesso. Essere players è un’arte perché non è facile dimostrare la propria maturità su un gioco. Che si chiami Clash of Clans oppure Brawl Stars o Candy Crush Saga, rischiamo di rimanere talmente invischiati nell’atteggiamento capriccioso e traviato della maggioranza dei nostri colleghi, da perdere di vista il nostro “io”.

Premessa: ognuno di noi è diverso, e si è avvicinato al gioco per motivi diversi, e ha età, background familiare e valori morali diversi.Ma quando si è online, sembra che questa consapevolezza venga accantonata e venga sostituita dal postulato del player medio, di Albertiana memoria : io sono io…e voi non siete un…(continuate voi).

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Questa impossibilità a capire l’altro è ciò che mi rende fico, stando al pensiero comune.
Ogni player giudica l’altro in base al suo punto di vista personale, reputandosi automaticamente migliore non perché supportato da fatti oggettivi, ma semplicemente perché si è deciso che si è migliori.

Come Barney Stinson, insomma. Il bisogno di questo tipo di player di essere ammirato non solo obnubila il suo intelletto così tanto da evitare il confronto con qualsivoglia persona sia lievemente in disaccordo con lui, ma lo porta in un circolo vizioso di facezie e salamelecchi talmente coinvolgente che perde totalmente la propria identità per diventare pura e semplice estetica. Una maschera, insomma.

E allora si assiste a scene che, viste da un occhio esterno, porterebbero quest’ultimo a desiderare di essere “sparaflashato” alla Men in Black per dimenticare a quanto può arrivare un player in preda a questa sindrome.

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Perché chi ne è affetto, invece di soddisfare il proprio bisogno di affetto e amore attraverso sane relazioni, assume il ruolo di “mr leggendario“, celando i propri bisogni dietro una maschera sorridente e un cumulo di freddure. L’autocelebrazione è ciò che lo endorfina e gli crea piacere, ma, essendo basata sul nulla, ha bisogno di essere continuamente aumentata di dose, per dargli lo “sballo” di cui ha bisogno.

Finché non si arriva al tipping point, il punto di non ritorno. Quello in cui la sua maschera, appesantita da tutto il trucco e il cerone che vi ha applicato nel corso della sua tournée, cade.
E rivela quel che è diventato: qualcuno che ha dimenticato il proprio valore, per apparire agli altri come chi in realtà non è. In pratica, un reietto.

Essere players è un’arte. E spero che cadano tante maschere, e si ritorni ad essere persone.

Simon C.


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